Calcio
Il calcio come salvezza e riscatto: Alfredo De Vita, una vita in campo per i ragazzi del Rione Libertà

Ascolta la lettura dell'articolo
Da oltre trentacinque anni, Alfredo De Vita non allena solo calciatori. Allena vite. Le raccoglie dalla strada, le porta su un campo, le guarda crescere come figli. Il suo campo da gioco non ha solo porte e righe bianche, ma valori, scelte difficili, abbracci veri. E soprattutto ha un quartiere: il Rione Libertà. Qui, dove la vita a volte parte in salita, lui ha scelto di restare. Di investire il suo tempo, il suo cuore, la sua intera giovinezza per trasformare il calcio in un’alternativa alla solitudine, alla rabbia, alla resa. Ha raccolto ragazzi senza scarpe e ha insegnato loro a camminare a testa alta. Ha creduto in chi non ci credeva più nessuno. E lo ha fatto senza clamore, con la forza di chi ama davvero: senza chiedere nulla in cambio.
Il suo è un nome che in molti sussurrano con gratitudine, ma che meriterebbe di essere inciso tra le storie belle del nostro tempo. Perché Alfredo non ha costruito solo una scuola calcio. Ha costruito una famiglia, un rifugio, un pezzo di futuro.
Tutto è cominciato da una sede improvvisata dietro al Bar Bianchini, con una quota mensile di 10.000 lire e tanti ragazzi da togliere dalla strada. Non c’erano sponsor, solo cuore e voglia di costruire qualcosa. “La prima squadra si chiamava Club Rione Libertà – racconta Alfredo – avevo 18 anni, e già sentivo il dovere di fare qualcosa per il mio quartiere”.
Lo sport come riscatto
Nel 2010 nasce la De Vita Soccer, una scuola calcio diventata punto di riferimento per generazioni di ragazzi. “Abbiamo iniziato da zero, senza chiedere contributi a nessuno. Noi accogliamo i bambini gratuitamente. Da noi si gioca, si ride, si cresce. E si impara il rispetto”.
È qui che Alfredo trasforma il calcio in una lezione di vita: “Chiedo solo due cose ai ragazzi: educazione e rispetto. Perché il campo è come la vita: se non rispetti l’altro, non arriverai lontano”.
Il dolore, la forza, il ricordo
Ma la strada è lunga, e a volte crudele. Tra i tanti giovani cresciuti alla De Vita Soccer c’era anche Francesco Pio De Luca, scomparso prematuramente a maggio scorso. “Era come un figlio per noi – dice Alfredo con la voce che trema – avevamo deciso di fermarci, il dolore era troppo grande. Poi i ragazzi ci hanno detto: facciamolo per lui. E così abbiamo ritirato il suo numero, l’11. Da quest’anno non lo indosserà più nessuno”.
Un sogno chiamato Serie C1
Oggi, la De Vita Soccer ha finalmente una casa vera, la tendostruttura ‘Marco Polo’ nel cuore del Rione. Gli è stata affidata dalla Provincia. “Non dobbiamo più mendicare un campo dove allenarci. E questo cambia tutto”. La prima squadra milita nel campionato di Serie D di calcio a 5, ma l’obiettivo è chiaro: “Vogliamo arrivare in Serie C1 entro due anni”. Non per vanità, ma per dimostrare che anche dal basso, con impegno e onestà, si può costruire qualcosa di bello.
Una scuola calcio che non vende illusioni
A differenza di altre realtà che puntano ai grandi numeri, Alfredo non cerca “i 300 tesserati” da esibire. “Noi formiamo categorie che possiamo seguire con attenzione. E lo facciamo senza chiedere soldi alle famiglie. Se c’è un ragazzo con talento, lo accompagniamo noi, anche se poi a volte ce lo portano via senza nemmeno un grazie”.
Con lui, Veronica, compagna di vita e di sogni. “Senza di lei, niente sarebbe stato possibile”, dice Alfredo. Insieme, sono riusciti a creare molto più di una scuola calcio: una famiglia, una comunità, un rifugio per chi ha bisogno di una seconda occasione.
Il segreto? Farli divertire
“Divertitevi. Sempre.” È la prima cosa che Alfredo dice ai suoi ragazzi ogni volta che scendono in campo. Non parla di schemi o tattiche. Parla di cuore. Di rispetto. Di responsabilità. Di come si sta insieme. Perché allenare non significa solo formare atleti, ma uomini.
E mentre racconta di sogni realizzati e altri ancora da inseguire, nei suoi occhi c’è la stessa luce di quel ragazzo di 18 anni che, armato solo di buona volontà, decise che il Rione Libertà meritava più di un destino scritto sui muri.
Oggi quel ragazzo è un uomo. Ma non ha mai smesso di credere nel potere di un pallone, calciato nel posto giusto, al momento giusto, con le persone giuste.
E forse, in fondo, è proprio questo il significato più profondo di chiamarsi “Mister”.