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Stefano Tremigliozzi, dai tricolori nel salto in lungo alla politica: ‘Più sport nelle scuole per scoprire talenti. I lavoratori? Tornino a lottare per i loro diritti’

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Stefano Tremigliozzi è senza ombra di dubbio nella top ten degli atleti beneventani più apprezzati e vincenti degli ultimi 15 anni. Figlio d’arte e talento cristallino, proprio come il fratello Marco, nel tempo ci ha appassionato alle sue gesta nel salto in lungo ancor prima che Gimbo Tamberi e Mark Jacobs facessero la storia alle Olimpiadi di Tokyo 2020. Una dimensione internazionale che a Stefano è invece mancata, un tassello che non è riuscito ad inserire nel suo percorso da professionista, falcidiato anche dalla sfortuna e da qualche infortunio di troppo. In compenso, però, il palmares italiano è di tutto rispetto. Un dato su tutti: è l’italiano che nella storia ha vinto più titoli indoor – cinque per la precisione – a pari merito con l’ex lunghista Giovanni Evangelisti, bronzo olimpico alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984. E, per uno strano scherzo del destino, quella dimensione europea e mondiale che non è riuscito a conquistato in pista oggi se la è ritrovata in un’altra grande passione: la militanza politica con il Partito Comunista Internazionale, che lo porta a ragionare quotidianamente sulle sorti del mondo, sulle guerre, sulla crisi economica e ambientale. E sulla vita futura che lasceremo ai nostri figli.

Partiamo dall’amore per
l’atletica leggera. Perché il salto in lungo?
L’amore per l’atletica leggera nacque grazie a mio padre, cresciuto sportivamente con la mitica Fiamma Sannita del presidente Eddy Mucci. Suo compagno di allenamenti è stato il compianto prof. Gianni Caruso. Papà è stato un praticante e grande appassionato di atletica: ha trasmesso prima a mio fratello Marco e poi a me questa sua grande passione. L’attività scolastica ha poi contribuito enormemente: già dalle elementari, quando mi cimentavo in discipline atletiche, mi rendevo conto di essere molto portato per la velocità e per il salto in lungo. Durante le ore di educazione fisica, saltavo molto più lontano dei miei compagni di classe e in tanti avevano notato la mia totale predisposizione e le mie qualità per questo sport. Era la metà degli Anni Novanta: mio fratello si apprestava a disputare le prime gare con la Libertas, io iniziavo a frequentare il campo Coni con la squadra esordienti. Dai 10 ai 17 anni è stato solo un divertimento, una volta maggiorenne però ho iniziato a dedicarmi completamente alla disciplina centrando i primi importanti risultati a livello nazionale. E su di me si sono posati gli occhi dell’Aeronautica Militare.

Sulla tua strada hai avuto una guida d’eccellenza: il prof.Giovanni Caruso. Che ricordo hai di lui?
E’ stato l’allenatore che ha curato tutta la mia fase di crescita fino ai 18 anni. Un grande motivatore che ha sempre creduto nelle mie potenzialità atletiche, spronandomi quando non ero molto assiduo negli allenamenti. Non so quante volte è venuto a casa a ‘prendermi per le orecchie’ per portarmi al campo o a disputare una gara. Un grande appassionato, che ha dedicato anima e corpo ai suoi allievi.  

Arrivano i primi risultati importanti. Entri nell’Aeronautica Militare (per la quale oggi lavori) e iniziano anche le competizioni internazionali. Quali le emozioni più belle vissute con la Nazionale?
Ricordo con grandissima emozione gli Europei di Atletica Leggera del 2010 a Barcellona. E’ stato l’anno in cui ho sfiorato la finale. Feci un nullo di 8 metri che mi avrebbe consentito di accedere alla finalissima tra i primi 12. Ricordo l’atmosfera incredibile con migliaia di persone sugli spalti a fare il tifo in uno stadio che nel 1992 aveva ospitato le Olimpiadi. Feci una buona gara con un salto da 7,80, peccato per quel nullo. Tra i ricordi più belli anche un titolo italiano conquistato con un salto da 8,06 metri, la mia migliore prestazione in assoluto.

Quando uno immagina la vita dell’atleta pensa ad una vita fatta di rinunce e sacrifici. Anche per te è stato così?
I sacrifici ci sono sempre stati. Ho avuto una vita normale come tanti giovani. Uscivo nel week end, ma ho sempre seguito una dieta particolare e mi allenavo anche nei giorni di festa. Nulla di più della vita di chi segue un percorso da professionista. Il lavoro dello sportivo ti impegna totalmente e non si ferma mai: il giorno libero era di solito di totale riposo dopo una settimana carica di allenamenti.

In un determinato periodo ci sono stati due azzurri vincenti nel salto in lungo: il sannita Tremigliozzi e il campionissimo Andrew Howe. C’era competizione tra voi?
Con Andrew non c’è stata mai competizione. Quando è stato all’apice, non ce n’era per nessuno. Parliamo di un atleta che saltava quasi 8,50 metri, è detentore del record nazionale del salto in lungo (8,47 m) e ha conquistato una medaglia d’argento ai Mondiali di Osaka nel 2007. Quando successivamente ha avuto una flessione potevamo giocarcela, ma per le caratteristiche che aveva era decisamente una spanna sopra a tutti.

Hai qualche rimpianto? Magari legato a qualche infortunio di troppo?
Ho lasciato l’attività con qualche anno d’anticipo: avrei potuto fare altri due o tre anni a buoni livelli. Il rimpianto c’è, perché forse non sono sempre riuscito ad arrivare in forma alle competizioni che contavano. Sono stato molto forte sul piano nazionale, ma non riuscivo a rendere nelle gare internazionali.

Come mai?
Per partecipare alle gare internazionali dovevo qualificarmi con un risultato importante. Questo mi portava ad andare in forma prima e arrivare alla competizione europea o mondiale già scarico. Questo il mio rammarico più grande. Peccato per quel nullo a Barcellona: quella volta me la giocai realmente e avrei potuto portare a casa un risultato straordinario. n chiave mondiale, restano un secondo posto ad Atene in una tappa indoor di Coppa del Mondo Miliare e un quarto posto ai Mondiali Militari di Sofia, in Bulgaria, nel 2009. Arrivai a 10 cm dall’oro.

Da Tamberi a Jacobs, negli ultimi anni l’atletica leggera italiana si è stropicciata gli occhi. Qual è il suo stato di salute?
Rispetto a quando saltavo io, sembra ci sia ora una Federazione più attenta e più vicina a tutti gli atleti, anche a quelli di livello medio-alto. In passato si puntava solo sui big e non c’era la voglia di far crescere l’intero movimento. I problemi, però, sono sempre gli stessi: mancano strutture adeguate, pochi investimenti negli impianti sportivi, poco sostegno alle società, soprattutto quelle più piccole e ‘povere’, che poi forgiano i futuri potenziali campioni. Nonostante ciò, sembra che i talenti emergano comunque e facciano anche risultato.

Cosa manca sul nostro territorio per incentivare alla pratica sportiva e a sensibilizzare alla cultura dello sport?
Bisogna lavorare nelle scuole con campagne di sensibilizzazione e sul piano istituzionale: purtroppo il nostro sistema scolastico è molto distante dalla pratica sportiva. Non dico di arrivare al sistema americano, ma sarebbe opportuno fare di più. C’è un problema economico legato alle infrastrutture e agli investimenti. Un esempio: il campo Coni di Benevento, lo stiamo rifacendo ora dopo 20 anni! Un impianto fiore all’occhiello, che è andato deteriorandosi di anno in anno (con annesso palazzetto indoor di cui rimane solo uno scheletro in ferro) e che nel tempo avrebbe potuto svolgere anche un ruolo sociale prelevando tanti ragazzini dalla strada per avviarli all’atletica.  Speriamo che i lavori finiscano presto per poterlo riconsegnare alla città e alla comunità sannita.

Un’altra grande passione è la politica…
Anche questa è una passione che mi è stata trasferita, probabilmente inconsciamente, da mio padre che è stato un militante di sinistra negli anni caldi. Una passione che ha a che fare con le vicende del mondo.

In passato hai avuto anche una esperienza di candidatura alle ultime Regionali con Italia Viva…
Un’esperienza per la quale mi pento totalmente e che non rifarei né con Italia Viva né con altri partiti. Oggi mi ritrovo a sposare la scuola di pensiero e il metodo di azione del Partito Comunista Internazionale.

Cosa ti affascina?
Il programma si concretizza nelle lotte e nelle rivendicazioni dei diritti dei lavoratori: una lotta sindacale per la diminuzione degli orari lavorativi, per l’aumento dei salari, per tutto ciò che concerne il miglioramento delle attuali politiche sociali. Siamo in un momento storico delicato, nel quale i lavoratori non possono più delegare ai partiti politici, ma devono riprendere le attività di lotta autonomamente, come succedeva un tempo. Penso ad esempio a quanto stanno facendo i lavoratori della manutenzione ferrovie e del personale viaggiante (macchinisti e capitreno) RFI che si sono auto-organizzati con propri sindacati autonomi per far fronte a contratti peggiorativi firmati dalle sigle di categoria. Qualcosa si sta muovendo e spero che questa lotta possa estendersi anche in altre aziende e in più settori. Guardiamo al passato, le lotte di un tempo ci hanno permesso di raggiungere degli obiettivi fondamentali: una sanità pubblica giusta, gratuita e universale, un welfare con servizi e benefici sociali per tutti. Perse queste lotte, si sono perse anche le rivendicazioni. Negli ultimi 40 anni, al di là dei governi di destra o di sinistra, dove maggioranza e opposizione insieme hanno contribuito a determinare certe situazioni o ad avvallare proposte inaccettabili e ingiuste – un esempio è il recente Ddl sicurezza -, i nostri diritti sono andati man mano scemando. Pensa alle guerre: inviamo armi e continuiamo a tagliare sullo ‘stato sociale’. E’ una cosa corretta? A me non sembra. Spendiamo 40 miliardi di spese militari e poi per fare una risonanza in ospedale dobbiamo aspettare due anni. C’è qualcosa che non va e se tutti i partiti ragionano in tal senso, evidentemente c’è un problema strutturale.

Anche nel nostro Sannio si parla tanto di problemi legati alle aree interne, mancanza di servizi, spopolamento e giovani che vanno via. Come si inverte la direzione?
Il problema è vasto e parte dall’alto. Se lo Stato è indebitato fino al collo, con 3mila miliardi di debito pubblico, ma continua a spendere soldi per acquistare armi o per altro, tutto si riversa sui comuni e i territori, soprattutto su quelli più in difficoltà.  Se c’è precariato, se abbiamo i salari più bassi d’Europa, se abbiamo un tasso di disoccupazione giovanile elevatissimo, non ci potrà essere un futuro migliore seguendo questa strada. Il Sannio? Sono pessimista. Ma lo sono anche a livello nazionale e internazionale. La visione locale non può prescindere da quella globale. Sono molto preoccupato. Stiamo andando verso un mondo di guerre, crisi economiche e ambientali. Stiamo consegnando ai nostri figli e ai nostri nipoti un mondo devastato. Se non si inverte la rotta e si inizia a lottare per i nostri diritti, con una vera attività sindacale di base forte e non istituzionalizzata e vicina al potere, si rischia di essere inghiottiti in un ‘pozzo senza fondo’.  E’ tempo di fare qualcosa di importante.

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