Calcio
Dalla serie A al mondo del food: la storia di Ugo Aquino, imprenditore della pizza che ha sfidato crisi e covid con visione e idee

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E’ il 27 ottobre 1999. Sedicesimi di finale di Coppa Italia. Allo stadio Bentegodi l’Hellas Verona è sotto di due reti contro il Ravenna di Centofanti, Murgita e Ciccio Dell’Anno. Davanti a 4mila spettatori, la partita è diretta in via sperimentale da due arbitri. Mister Prandelli le prova tutte per pareggiarla: prima fa entrare Melis e Aglietti, poi a sorpresa fa esordire un ragazzino del Sud. Il giovanissimo si fa subito notare, si muove bene e, in pieno recupero, Piovanelli su rigore accorcia anche le distanze. Non basta per evitare figuraccia ed eliminazione. Finisce tra i fischi dei tifosi gialloblu, che però dedicato cori a gran voce per quel debuttante determinato e combattivo: il suo nome è Ugo Aquino. Classe 1981, beneventano purosangue, centrocampista dal talento cristallino. D’un tratto – a soli 18 anni – quel ragazzino si trova catapultato in una rosa di serie A con giocatori importanti destinati a lasciare un segno: Frey, Apolloni, Diana, Adailton, Morfeo e Cammarata, solo per citarne qualcuno. Ma purtroppo non tutte le favole hanno un lieto fine: nonostante la stoffa e i tanti sacrifici sostenuti, infatti, il palcoscenico della serie A resterà un sogno sfiorato. A 30 anni e con una serie di esperienze in categorie minori, Ugo dirà basta senza troppi rimpianti. Con il coraggio e la lungimiranza che lo hanno sempre contraddistinto, si tufferà in un nuovo progetto insieme con la compagna Veronica. Oggi Aquino è un giovane imprenditore che ha saputo far della passione per le proprie radici il motore di una visione manageriale che ha sfidato crisi e cambiamenti economici. La sua storia, che attraversa emozioni contrastanti, è la testimonianza vivente di come il calcio – che lo vide protagonista come giovane promessa – abbia lasciato in lui la voglia di lottare, in ogni campo, con il cuore. Perché con le sue pizzerie sta riscrivendo le regole di quel successo sportivo meritato ma sfumato. E lo sta facendo nella città che ama, restituendo alla sua terra le tradizioni e l’orgoglio di una comunità, quella sannita, che non si arrende mai.
Ugo, il calcio è stato una parte fondamentale della tua vita. Come è nata questa grande passione?
Sono nato e cresciuto in via dei Mulini, zona Pietà. Nel nostro quartiere, tra la fine degli Anni Ottanta e l’inizio degli Anni Novanta il punto di riferimento per noi bambini era il campetto di don Luigi Caturano, dove trascorrevamo intere giornate. Soprattutto in estate, eravamo lì dalla mattina fino ad ora di pranzo e così anche il pomeriggio fino a sera. Molto spesso avevamo solo un pallone, anche rappezzato. Siamo cresciuti così in strada, a pane e pallone…non poteva nascere in un altro modo questo grande amore. Dal campetto del quartiere ho poi iniziato a giocare nella scuola calcio della Grippo, guidata dal direttore Guido De Rosa. In quegli anni la società fu assorbita dal settore giovanile del Benevento, facendo mutare anche il nostro scenario calcistico.
Diventi un pilastro del settore giovanile della Strega. Che ricordi hai di quegli anni?
I ricordi sono in particolare i sogni che avevo. Erano gli anni della C2 e della promozione: noi ragazzini facevamo i raccattapalle e sognavamo di passare al di là della linea di gioco. Io sognavo di essere al posto dei giocatori che vedevo correre in campo ed esultare sotto la curva con i tifosi. La svolta per me arrivò con la vittoria del torneo nazionale con la rappresentativa regionale campana a 15 anni: ricordo che ero in squadra con Paolo Cannavaro e tanti altri ragazzi che poi hanno calcato palcoscenici importanti. Da lì il salto di categoria importante: non disputai il campionato Allievi, ma andai a giocare nella Berretti del Benevento con un gruppo di ragazzi molto più grandi di me. Lì trovai mister Luciano D’Agostino, allenatore straordinario che mi ha fatto maturare molto, facendomi diventare un ometto. Il mister era un sergente di ferro, proprio come credo debba essere un allenatore. In quell’anno giocai tutte le partite fino a quando poi non si accesero su di me i riflettori di varie squadre di serie A e serie B. La spuntò l’Hellas Verona.
E’ l’inizio di una storia incredibile.
Era il 1997. Avevo 16 anni quando fui acquistato dall’Hellas per 90 milioni di vecchie lire. Mi trasferii al Nord senza la mia famiglia e cominciai questo percorso bellissimo con gli scaligeri. Ricordo che con la Primavera andammo a giocare il sabato a Milano contro il Milan di Tassotti e io feci goal: quella fu l’ennesima svolta perché – nonostante la possibilità di svincolarmi a costo zero e accettare tra diverse proposte di club esteri – il lunedì mi chiamarono in sede per firmare un contratto di 5 anni.
Qual è stata la più grande emozione?
Ricordo con emozione il giorno in cui ho esordito in Coppa Italia, quando mi è stata consegnata la maglia (con il mio nome) che ancora conservo gelosamente. Mister Prandelli, all’epoca allenatore dei gialloblu, mi chiamò per la rifinitura; io telefonai a mio padre per dirgli che ero stato convocato per la partita e che mi avevano anche preparato la maglia. “Prendo subito l’aereo”, mi rispose, ma io tagliai corto: ‘Ma no papà, è solo una partita…’. Alla fine mi ritrovai mio padre in tribuna e mister Prandelli che ad un certo punto mi fa scaldare ed entrare. Pensai tra me e me: “Dove sono? Cosa sta succedendo?”. Mio padre mi ha raccontato che era sugli spalti al telefono con i miei familiari e piangeva di gioia. A fine partita andai sotto la curva a ringraziare i tifosi perché, nonostante l’eliminazione dalla Coppa e la contestazione alla squadra, mi dedicarono dei cori bellissimi. Avevo solo 18 anni e facevo parte della rosa di una squadra di serie A.
E poi che successe?
Sono entrato in un meccanismo di giochi di potere, quello tra presidenti e procuratori che dovevano avere il monopolio dei giocatori. Non mi sono però piegato a determinate cose e mi hanno tagliato le gambe. Così, dall’esordio con Prandelli e dall’essere un giovane considerato di prospettiva, sono stato mandato un po’ in giro a farmi le ossa. Nel momento in cui sono tornato, però, ho trovato una situazione cambiata. Prandelli non c’era più. Tra le tante esperienze calcistiche ricordo anche Campobasso, dove perdemmo il campionato alla penultima giornata contro il Taranto, dopo aver disputato una stagione sempre da capolista.
C’è qualche rimpianto?
A 30 anni ho messo una pietra sopra al calcio per la delusione di quanto mi è accaduto. Mentalmente mi sono lasciato andare e ho mollato, tanto è vero che da quando ho lasciato il gioco agonistico, ho abbandonato anche l’interesse nei confronti della ‘pelota’. Il rimpianto? Non ho voluto sottostare a quel meccanismo di procure che avevano voluto impormi: non so se ho sbagliato o se ho fatto bene a seguire comunque la mia idea. I fatti dicono che ho sbagliato, ma non fa niente.
Il calcio, però, ti ha anche permesso di conoscere tua moglie Veronica…
Ho disputato il mio ultimo anno in Calabria. Ero a Praia a Mare dove ho conosciuto mia moglie. Lei mi ha fatto riflettere sul futuro: il calcio in quel momento mi dava da vivere, ma non avevo alcuna prospettiva lavorativa. Ci sono infatti tanti calciatori di categorie minori che, conclusa la carriera sportiva, si perdono perché fondamentalmente sanno fare solo quello. Grazie a lei e insieme con lei sono riuscito a sviluppare la mia idea imprenditoriale: prendemmo una pizzeria a Santa Maria del Cedro per creare un locale prettamente estivo. Iniziammo questa avventura e notammo che tutti i clienti, in prevalenza provenienti dal Napoletano per trascorrere le vacanze al mare, apprezzavano molto i nostri prodotti gastronomici e la nostra pizza. Visto il successo del periodo estivo, proposi a mia moglie di aprire anche a Benevento. Era il 5 febbraio 2015. Due mesi fa abbiamo festeggiato i dieci anni della nostra pizzeria ‘Napul’è’.
Dieci anni di difficoltà e covid, ma anche di tante soddisfazioni…
Siamo riusciti a venire fuori da un periodo che purtroppo ha visto la fine di tantissime attività commerciali. Ce l’abbiamo fatta con una visione che andava oltre l’ostacolo: eravamo infatti già improntati al delivery sin dal 2018, anche se la gente non era ancora pronta a questo tipo di servizio. L’occasione per apprezzarlo è stata proprio la pandemia, data l’impossibilità di uscire e di poter andare a cenare nei locali. Abbiamo fatto un lavoro eccellente e non ci siamo fatti trovare impreparati. La cosa più bella è stata rimboccarsi le maniche e riuscire a non licenziare nessuno reinventandoci – io per primo e tutto il mio staff – come riders per le consegne a casa. Da lì non solo è cresciuta la nostra reputazione, ma anche il nostro servizio sulla piattaforma più famosa è diventato tra i più eccellenti in Italia, tanto da essere premiati a Milano con il ‘Just Eat Award’.
Tante le idee originali per dare una scossa e portare gente in pizzeria. Una su tutte: l’all you can pizza
L’idea dell’all you can pizza nasce dalla percezione di una difficoltà delle persone. Abbiamo superato sì il Covid, ma subito dopo ci siamo ritrovati con la guerra in Ucraina. È sotto gli occhi di tutti che da quando è iniziato il conflitto, c’è stato un incremento di prezzo incredibile. Sia a casa sia per quanto concerne le attività commerciali, ciò ha avuto delle ripercussioni sull’approvvigionamento delle materie prime. Con questi prezzi pazzi, locali come il mio dovevano o chiudere o smettere di servire determinati prodotti. Così ho detto al mio staff: ”Anche nel post covid la gente ha ancora paura. Noi proviamo a lanciare dei messaggi positivi, ad invogliarle a venire al locale e a ritornare a vivere normalmente. Il costo dei prodotti è aumentato? Non fa nulla, gran parte dei costi ce li accolliamo noi’. Avevo l’obiettivo di riempire la sala: era un dovere anche nei confronti dei miei dipendenti, per evitare che il lavoro diventasse sconfortante in una sala mezza vuota. Mi sono ripromesso che dovevo vincere questa sfida e così è stato. L’iniziativa è stata un successo. Stesso discorso per la comunicazione sui social, che sta andando molto bene: abbiamo iniziato questo percorso realizzando video e reel che fanno sorridere. Ogni volta che programmiamo una pubblicazione ci inventiamo uno sketch.
Ora una nuova sfida imprenditoriale in un luogo storico della città. Lunedì 14 aprile inauguri un nuovo locale: ‘Spacca Napul’è’
‘Spacca Napul’è’ nasce nel cuore pulsante del centro storico, a due passi da quello che fu il mercato di piazza Commestibili, fulcro del commercio cittadino. Siamo in via Porta Rufina, alle famose ‘scalette strette’, abbiamo ridato vita a quei locali che un tempo ospitavano un forno e una baccaleria. Quando a me e a mia moglie è stato proposto di ridare vita a queste famose saracinesche, abbassate da troppo tempo, non ci abbiamo pensato due volte ad accettare la sfida ed abbiamo coinvolto i nostri più stretti collaboratori: i pizzaioli Vincenzo Squillace e Andrea Vernacchio. Abbiamo voluto premiare la loro dedizione e il lavoro costante profusi per anni nell’attività principale che è quella di via Avellino. Spacca Napul’è avrà una offerta variegata: focacce, pizze in teglia, burger, calzoni fritti che sono un must della vecchia cucina povera beneventana e che non tutti fanno come street food. A pranzo, invece, faremo trovare delle vetrine pronte con un ‘prendi e porta via’ per chi non ha tempo o voglia di cucinare. La sera, infine, la saletta diventerà un pub con una selezione di birre esclusive.
Ti lascio con un’ultima riflessione su Benevento e sul Benevento.
Benevento si sta spopolando: le persone tendono ad andare via. E poi c’è chi come me ha deciso di restare per fare qualcosa, come riportare a galla le nostre tradizioni gastronomiche. Negli ultimi 20 anni abbiamo perso migliaia di abitanti e non è un buon segnale, significa che pian piano si sta spegnendo la luce. Qualcosa bisogna fare, qualcuno deve intervenire per risollevare le sorti di una città meravigliosa. Sul Benevento Calcio voglio dire soltanto una cosa.
Prego.
Questa proprietà, che oramai da 20 anni ha messo le radici in città, ha fatto grandi cose ma anche grandi errori, sempre però cercando di fare grandi cose. E questo non va mai dimenticato. Criticare è giusto, dare un’opinione anche, ma non bisogna andare oltre nelle critiche per una persona che, pur non essendo del territorio, ci ha fatto togliere grandi soddisfazioni. Questa stagione è andata così, abbiamo capito che il progetto giovani è entusiasmante ma alla lunga non paga perché c’è bisogno anche di esperienza: valeva la pena magari investire a gennaio per provare a vincere questo campionato. Ma da qui a dire ‘vattene’ perché la squadra è entrata in un tunnel nel quale non riesce a fare risultato, vuol dire cancellare 20 anni di investimenti che per lo più delle volte non hanno dato ritorni economici. Chi ha investito lo ha fatto essenzialmente per passione e questa cosa fa sì che la persona in questione vada preservata da critiche ingiuste.