Calcio
Il Viareggio, la sfida alla Juve, i consigli a Ciro per una B mai arrivata. Luciano D’Agostino, una vita per i giovani: ‘Il calcio è arte, non scienza’
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Molti addebitano a John Fitzgerarld Kennedy la responsabilità di aver alimentato il falso mito che vorrebbe far coincidere crisi e opportunità in una sola parola della scrittura cinese. Di certo c’è che quel concetto negli anni è diventato un “must” nel campo della motivazione e del sostegno. E vera o sbagliata che sia la citazione, l’insegnamento rimane: da una situazione di difficoltà può nascere un’occasione. A ribadirlo la storia di questa domenica. Campionato di Serie C2 1984/85, girone D. Capitano della Frattese è un trentenne centrocampista sannita. Gli saltano tibia e perone. Stagione andata. Per lui e per la squadra campana, ultima in classifica. Esonerato l’allenatore, allora, il presidente fa una cosa che sarebbe diventata di moda – qualche anno più in là – in Inghilterra: chiama il suo capitano e gli affida la panchina per le ultime sei partite. “Il calcio è strano, iniziamo a collezionare risultati incredibili. E alla penultima giornata andiamo a giocare a Frosinone. Stadio pieno. D’altronde ai ciociari basta un pareggio per vincere il campionato e volare in C1, noi siamo retrocessi se non vinciamo. Andiamo in vantaggio ma prima ci danno contro un rigore inesistente e poi ci buttano fuori due calciatori. Tolgo le punte e inserisco due difensori, l’allenatore avversario fa l’esatto opposto. La partita va come speravo e nonostante giochi in 11 contro 9 il Frosinone non passa. Ma devo vincere e allora verso il finale metto dentro una punta: Filippo Milano, un altro beneventano. Segna e vinciamo noi. Usciamo tra gli applausi del pubblico, l’impresa viene celebrata anche dalla stampa nazionale”. Protagonista del racconto è Luciano D’Agostino. Che la stagione successiva tornerà a giocare. Ma con una nuova consapevolezza: il suo futuro è in panchina. E trascorsi quarant’anni è ancora lì. A insegnare calcio. Unico sannita a farlo con in tasca la licenza ‘Pro Uefa’. “Credo di essere ancora l’unico, sì. Ma sono anche preparatore atletico, istruttore per le scuole, tecnico Fidal. Diciamo che i titoli non mancano. Ma bisogna dare loro il giusto peso: il calcio non è una scienza, il calcio è un’arte”.
Gli inizi da allenatore?
“La trafila l’ho cominciata nel ’90. La svolta nel ’96, quando ho conosciuto una persona eccezionale: Guido De Rosa. L’inizio di un’amicizia profonda oltre che di un legame professionale solido. Mi è sempre stato accanto, mi ha sempre sostenuto. Quando allenavo la Primavera del Benevento facevano a gara per prendere il mio posto, disposti a tutto. Guido non ne ha mai voluto sapere, eppure non navigavamo nell’oro. Non so quanti si sarebbero comportati allo stesso modo”.
Sta per iniziare il Viareggio. Le prime partecipazioni al torneo del Benevento furono vissute con orgoglio da tutte l’ambiente. In panchina c’era lei
“Una grande emozione. Inutile girarci intorno: il Viareggio, in quegli anni, era un vero e proprio campionato del Mondo per il settore giovanile. E per un club di Serie C essere ammessi alla manifestazione era un qualcosa di straordinario. E infatti pensai a uno scherzo quando Guido– due mesi prima dell’inizio del torneo – venne a preannunciarci la nostra partecipazione”.
E non fu soltanto “partecipazione”: otteneste risultati importanti
“Tre partecipazioni consecutive. Un passaggio del girone, nel 2003, ottenuto battendo l’Obilic, squadra serba che presentava calciatori che avevano disputato il preliminare per la Champions League. Ricordo ancora la gioia al fischio finale, le lacrime di Spatola, i tanti beneventani in festa sugli spalti dello stadio di Forte dei Marmi. Dei tre anni al Viareggio conservo un solo rimpianto”.
Ovvero?
“Mai riuscito a vedere una sfilata dei carri. I ragazzi sì, li lasciavo andare. Ma io restavo sempre nella mia stanzetta a preparare la partita perché ce n’era sempre una importante da giocare il giorno dopo”.
C’è anche un altro ricordo legato alla Primavera del Benevento di quegli anni: la semifinale di Coppa Italia, la prima volta della Strega contro la Juventus. E dopo la gara d’andata a Torino in tanti sperarono davvero che Davide potesse battere Golia
“Non è presunzione: noi non temevamo nessuno quell’anno. Anche perché avevamo eliminato Palermo, Cagliari, Napoli, Roma. E infatti speravamo di ‘beccare’ la Juventus. E all’andata, a Torino, meritavamo di vincere. Sul due a uno per noi sbagliammo anche un rigore. Poi per loro pareggiò Chiumiento, talento che ha parenti al Perrillo, a pochi chilometri da casa mia. Poi il ritorno non ci fu storia ma perché sbagliammo noi la partita. Un po’ l’emozione per l’attenzione mediatica che si era venuta a creare, un po’ la pioggia che rese il campo impraticabile, un po’ la scelta di giocare a Morcone”.
Lei non era d’accordo?
“Volevo giocarla al Santa Colomba. Lo dissi a Spatola ma il presidente era convinto che sul campo piccolo avremmo avuto più possibilità. Per me era l’esatto contrario: una squadra determinata e di gamba come la nostra avrebbe tratto giovamento da un terreno di gioco più ampio. E’ andata così. Resta, però, la soddisfazione per essere arrivati a quel punto. E restano anche i complimenti e gli applausi ricevuti a Torino”.
Restiamo sui rapporti tra lei e i presidenti del Benevento Calcio: il suo legame con Ciro Vigorito?
“Un legame splendido, di cui vado orgoglioso. Ciro aveva una grande fiducia in me, il sabato andavo a prenderlo a casa e poi insieme andavamo a vedere partite. Di Serie C ma anche di Serie B. E questo perché era convintissimo della nostra promozione in cadetteria. Voleva lo aiutassi a comprendere le difficoltà della categoria. Un giorno mi disse: “Scovami tre calciatori da prendere per la B. Un difensore, un centrocampista e un attaccante”.
I nomi?
“Gliene feci due. Per il centrocampo, Francesco Magnanelli, calciatore semisconosciuto all’epoca, poi diventato una bandiera del Sassuolo: duecento presenze in Serie A. E per la difesa Andrea Masiello, anche lui trecento gettoni nella massima serie. Ma la B, purtroppo, sfumò in finale con il Crotone. Ma a Ciro diedi anche un altro consiglio”.
Ascoltiamo
“Stagione 2007/08. Alleno la Val di Sangro e faccio debuttare un calciatore di sedici/diciassette anni. Chiamo subito Ciro: “Questo ragazzetto avrà futuro, prendetelo”. Era Lorenzo Del Pinto. E il Benevento provò a prenderlo, lui preferì andare al Pescara. Ma qui pure ci è arrivato, qualche anno dopo, magari ancora in forza di quel consiglio. E sappiamo pure come è andata. Ragazzo d’oro, Lollo. Così come lo è Schiattarella”.
Dopo la scomparsa di Ciro è rimasto poco al Benevento
“Ci fu un cambiamento, l’arrivo di un nuovo entourage e tempo due mesi compresi che non era più il posto per me”.
Un calciatore il cui percorso le ha dato più soddisfazione?
“Potrei citarne diverse. E allora facciamo così: le rispondo tutto il gruppo dei ragazzi nati nell’83 e nell’84. Cutolo, Bruno, Palladino, De Rosa, Vivan, Martone… Un gruppo umile. E di qualità: 9/11 di quella squadra titolare hanno giocato tra i professionisti. Un risultato enorme per la primavera di una Serie C”.
Con lei in panchina arrivò anche il primo gol di Palladino tra i professionisti
“Lo ricordo bene quel gol. Al ‘Flaminio’, in casa della Lodigiani. Un tiro al volo su assist di sinistro di Aruta. In tribuna c’era Furino, all’epoca osservatore per la Juventus. Dopo il gol, finito il primo tempo, andò via. Evidentemente non avevo bisogno di vedere altro”.
Tanti dei calciatori di quella Primavera l’accompagnarono anche nella sua avventura sulla panchina della prima squadra, una stagione complicata per via delle questioni societarie
“Rispondo con piacere a questa domanda perché mi dà l’occasione di dire una cosa. Non solo con i ragazzi, anche con i calciatori di esperienza di quel gruppo ebbi un ottimo rapporto. Penso ad Aruta, Di Giulio, i fratelli Dei, Piemonte, Manni. Provarono loro a convincermi a restare sulla panchina. Ma avevo capito che la mia presenza poteva solo portare fastidi”.
Perché?
“Al Santa Colomba venivano duecento spettatori. Dal campo si sentiva tutto, anche i fischi a ragazzi che davano tutto per la maglia. Il punto è che i tifosi volevano altro, coltivavano ambizioni diverse e spingevano per un cambio societario. E così insistetti io col presidente Pedicini: voglio tornare alla Primavera”.
In effetti le occasioni per allenare prime squadre non le sono mancate. Alla fine, dall’esterno, la sensazione è che preferisca restare coi giovani
“A Marcianise mi capitò la stessa identica cosa. Ero andato per la Beretti ed eravamo primi in classifica. Ma il presidente Bizzarro continuava a chiedermi di allenare la prima squadra. Con l’allenatore esonerato e la squadra ultima in classifica, non potevo più dire no. “Vuoi o non vuoi domani devi presentarti al campo” – mi disse a telefono. E facemmo bene, riuscendo a conquistare una salvezza tranquilla e meritatissima. Sa contro chi esordimmo?”
Prego
“Con il Gallipoli di Auteri. Loro primi in classifica, noi ultimi con una serie di sconfitte consecutive alle spalle. Pareggiammo, con merito. Restai in prima squadra anche la stagione seguente, tra alti e bassi nei rapporti col presidente. Ma fu un bel campionato, chiuso ai playoff”.
Cosa pensa di Auteri?
“Alessandro Bruno, un giorno, mi disse che ci somigliavamo, che avevamo diversi tratti in comune. Ma non lo so… per me Auteri è il miglior allenatore possibile in Serie C. Ma penso anche che meritasse una carriera diversa, in categorie più importanti. Perché non è successo? La verità? I presidenti di oggi soffrono gli allenatori con tanta personalità. E Auteri ne ha tantissima, oltre ad essere il più bravo sul campo”.
E con la Grippo, a lei, come va?
“Qui mi trovo benissimo. C’è tutto quello che serve per fare calcio giovanile, anche a livello importante. E puntando sui ragazzi del Sannio. Non lo faccio per polemizzare ma perché a me le cose piace dirle: possibile che un club professionista, che pure investe risorse importanti sul settore giovanile, non annoveri calciatori del posto? E non mi si dica che è un discorso di qualità. Le porto un esempio: con Antonio D’Argenio, qualche anno fa ci trovammo nella condizione di dover metter su – con poco tempo a disposizione – una rappresentativa di giovani calciatori della provincia per partecipare allo Shalom. Giocammo contro la formazione Allievi dell’Inter. Erano Campioni d’Italia: pareggiammo uno a uno. Caso? Forse. O forse c’è del materiale anche qui. E invece si cerca sempre altrove. E sa cosa succede?
Cosa succede?
“Che a furia di guardare in altre direzioni ti lasci scappare un talento come Christian Cioffi. E’ finito alla Roma ma le posso assicurare che avevamo la fila alla Grippo, per lui: Juventus, Fiorentina, Empoli. Tutti lo volevano. E il Benevento?”.
Forte forte Cioffi?
“Madre natura gli ha dato tanto: dal punto di vista tecnico, fisico, emotivo, caratteriale. Ma oltre al talento enorme, Christian ha qualcosa in più: è un computer. Sa già dove vuole arrivare e sa pure come arrivarci. E ci arriverà”.
E allora: un talento per cui immaginava un percorso importante e che invece poi non è esploso?
“Il mio primo anno con la Beretti del Benevento avevo un ragazzo classe 1981. Giovava contro i 79, dunque sotto età. Allenarlo e guardarlo era una meraviglia. Le sto parlando di Ugo Aquino. Con noi restò soltanto un anno perché poi lo prese il Verona, facendogli firmare un contratto da professionista per cinque anni. Aspettavamo tutti il suo esordio ma non avvenne mai. Problemi tra società, procuratori… “.
Ma è vera sta storia che non ci sono più talenti nei vivai italiani?
“Servirebbe un’altra intervista per parlare di questo. Una prima cosa da dire: non sono d’accordo con gli allenatori italiani che riducono tutto al fatto che nel settore giovanile non si punta più sulla tecnica. E’ una risposta di comodo, la questione è molto più complessa. Ci devi aggiungere una politica federale che porta avanti cose assurde – anche tra i dilettanti -, ci devi aggiungere la preparazione degli istruttori e la loro retribuzione, le poche ore dedicate all’educazione fisica nelle scuole. E ancora ci devi mettere le scelte delle società importanti, tutte concentrate sui grandi obiettivi senza investire un euro nel settore giovanile. Sono tanti i fattori. E poi il talento può anche esserci ma non basta. Il talento va allenato, aspettato. Le dico questo: Salernitana e Benevento hanno svincolato trenta ragazzi. Non uno, non due: trenta. Dopo tre mesi dall’inizio delle attività. E allora le cose sono due: o si è sbagliata la selezione a monte o qualcuno non ha lavorato bene. Ecco perché sono convinto che con la Grippo si possa fare un lavoro enorme, producendo risultati. Qui si lavora diversamente, impostando – grazie a Luigi De Rosa – le giuste metodologie per accompagnare il percorso di crescita di un ragazzo. E poi c’è lui: Guido. Che è un innamorato del pallone. E che ha un dono: è capace di individuare un probabile calciatore anche in un ragazzetto. E torniamo da dove siamo partiti: il calcio è arte, non è scienza”.